Arrigo Procaccia di religione israelita.
Un finanziere nella tempesta delle leggi razziali
In pochi mesi, secondo la volontà dello Stato italiano, gli ebrei persero il diritto a potersi sposare liberamente, a poter frequentare scuole “normali”, di poter lavorare in enti pubblici o di interesse nazionale, ad avere alle loro dipendenze lavoratori «ariani», a detenere una radio o un telefono, a possedere beni superiori a una determinata cifra, nonché – cosa forse più offensiva – da quel momento essere iscritti nei registri civili come di «razza ebraica», una sorta di marchio distintivo per tenere sotto controllo gli israeliti. Io come israelita, compresi che qualcosa si era ormai lacerato; che il peggio era lì da venire, tanto più che stava colpendo ancora di più in modo più intimo la mia stessa esistenza di cittadino. Fu ai primi di settembre che in caserma ci fu consegnato un questionario da compilare. In esso veniva chiesto di dichiarare la propria razza, quale religione professassero o avessero professato i propri genitori e tutta una serie di quesiti volti ad individuare, con un tono che giudicai invasivo, chi fosse ebreo.
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